Tenersi stretti ai tempi del Covid-19
Di questi tempi è forse più difficile rispondere alla domanda “Come stai?” che introduce talvolta l’inizio di un colloquio psicologico o di un incontro tra persone nella quotidianità. Sembrerebbe che la risposta sia a tratti condizionata dalle notizie che arrivano, dagli articoli che leggiamo avidamente alla ricerca di quella parola in più, di quella verità ancora sconosciuta. In queste giornate di post-emergenza, dove niente rimane fermo, restiamo sospesi, restiamo in sospeso. Come fare a rispondere a quella domanda, Come stai?
Sono partita, nel far spazio tra i miei pensieri, dalla etimologia della parola Contagio: questa parola deriva dal latino Contigere, composto da Cum e Tangere, “Toccare Con” ma anche “Toccare insieme”. Contagiare qualcuno indica, nella nostra accezione più comune, trasmettere una malattia, uno stato d’animo negativo, qualcosa che viene percepito come dannoso ed invadente. Un corpo estraneo invade i nostri confini, al di fuori della nostra libertà di scelta ed entra letteralmente “dentro” senza chiedere il permesso: la sensazione è simile a quella di un ladro che entra in casa nostra, creando confusione e sgomento. I sentimenti che si generano, e forse è più facile immaginarlo con l’esempio del ladro, possono essere di impotenza iniziale, annichilimento, terrore: ci si finge morti, addormentati, aspettando che l’invasore prenda tutto e vada via; si può reagire invece con immediata azione, prendendo il primo oggetto disponibile e affrontando il pericolo in arrivo. Sono queste, reazioni che in neuroscienze chiamiamo di Attacco o Fuga, messe in atto dal nostro sistema parasimpatico, per cui istintive, legate al nostro spirito di sopravvivenza e che mirano letteralmente a salvarci la vita. Alcuni animali, ad esempio, si fingono morti di fronte ai predatori, la cosiddetta reazione di Freezing, di congelamento. Anche noi umani, quando colpiti da un evento traumatico, possiamo congelarci, fisicamente ed emotivamente e questo può capitarci per un’ondata di emozioni sia negative che positive.
La nostra mente non è tarata per il “troppo” per cui, quando sovviene un evento inaspettato e di grande entità emotiva, le nostre barriere psicologiche si innalzano più forti o si sgretolano, in cerca di un nuovo equilibrio.
Se nella prima fase di emergenza la nostra psiche è tutta protesa ad arginare il carico emotivo e a difendere i nostri confini psicologici, è nella fase successiva che compaiono i sintomi, le tracce, dell’evento traumatico. È come dire che, se nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria che abbiamo attraversato eravamo tutti occupati dal seguire le regole, dal proteggerci, dall’evidenziare pericoli e abituarci ai continui adattamenti richiesti dall’esterno, è nel post-emergenza che la nostra mente, invece, si permette di reagire. Compaiono così momenti di angoscia profonda, disturbi del sonno e dell’alimentazione, difficoltà di programmare il futuro e sentimenti di scoraggiamento e tristezza rispetto ad esso; la lista è lunga e racconta le tracce di un trauma. La nostra mente tenta l’elaborazione dell’impensabile, prova cioè ad elaborare quel senso di impotenza che l’essere umano sente di fronte ad eventi incontrollati e imprevedibili della vita. Questi eventi distruggono quel senso profondo di fiducia e sicurezza con cui affrontiamo le nostre giornate, programmandole nel dettaglio, senza mai doverci preoccupare che qualcosa di grande o piccolo avverrà per interromperle. E’ quel senso di ingenua negazione che ci permette di vivere, costruire, fidarci del nostro agire e delle nostre scelte. Immaginiamo cosa sarebbe vivere se in ogni minuto della giornata ci chiedessimo: e se muoio? E se morisse qualcuno che io amo? E se venisse un alluvione ed io perdessi la casa? Un terremoto? E se dovessi rinunciare a tutti i miei progetti perché scoprissi di avere una malattia mortale?
Non potremmo mai, vivere così. Anzi potremmo, ma soffrendo molto.
La pandemia, in questi mesi, ha insinuato dentro di noi proprio questi dubbi: che non possiamo più fidarci delle nostre certezze e della nostra forza e che siamo tutti uguali di fronte ad essa, esseri umani sulla stessa barca, impotenti ed indifesi. Ma che, soprattutto,è il nostro starci vicini causa stessa di male, di contagio, di ulteriore pericolo. L’Altro che di solito ci soccorreva, è anche un altro che contagia, che ci fa ammalare, che non conosce la cura come non la conosciamo noi; ma d’altronde, anche noi siamo l’Altro che fa ammalare, che contagia, che porta ai propri cari il pericolo che noi stessi temiamo dagli altri. Credo sia questa consapevolezza a fare male: sapere che neanche il nostro affetto, il legame con chi amiamo, può guarire dal Covid-19. Vivere ai tempi del Covid-19 significa forse con-vivere con queste angosce profonde e mi chiedo se siamo pronti, adesso che il tempo del lockdown è finito, a riaprirci veramente.
Ricerche recenti evidenziano un aumento significativo di casi di insonnia, depressione, ansia, irritabilità, suicidio e violenza domestica; queste sintomatologie esprimono il tentativo, da parte delle nostre risorse psicologiche, di esprimere una sofferenza che non riusciamo ad elaborare. Se alcuni tipi di sofferenza oggi sono più visibili di altri (economica, sanitaria, sociale..) non è vero che ciò che non si vede non esiste. Il non parlare anche di questo dolore, quello mentale, ci porta forse a credere che è meglio far finta di non vederlo, per non spaventarsi o spaventare; che è meglio rimanere tutti chiusi nella propria quarantena interiore, ognuno per conto suo. Il rischio che corriamo è proprio quello di imparare a considerare l’altro come una fonte di contagio fisico ed emotivo, di imparare a stare lontani dagli altri perché portatori di angosce, malattie, sofferenze. L’eredità che il covid-19 ci lascia è invece anche questa, e purtroppo non è visibile ad occhio nudo: un vago sentore che le cose non andranno bene e che ad avere fiducia, si finisce feriti; il pericolo di sentire che gli altri potranno farci del male o che siano impotenti e spaventati come noi, quindi non contattabili.
Il superamento e l’elaborazione di queste difficoltà psicologiche richiede un percorso forse opposto a quello che il Coronavirus ci ha insegnato, un percorso dove il primo passo è una richiesta di aiuto verso l’Altro ed il moto che ci spinge, quello della speranza.
Non conosco altre strade. Teniamoci quindi stretti ai tempi del Coronavirus.
[Illustrazioni_Alessandro_Gottardo]